Genere

Il termine «genere», mutuato dalla retorica e dalla filosofia, è in uso dalla seconda metà del secolo scorso anche nell'ambito delle scienze psicologiche e sociali per indicare l'identità e il ruolo di un soggetto in relazione alle categorie di «maschile» e «femminile». Se con il termine «sesso» si voleva denotare l'appartenenza a una categoria anatomica e biologica (maschio/femmina), il concetto di genere (e di «identità di genere») sposta il riferimento sul piano dell'esperienza psicologica, culturale e inevitabilmente politica delle categorie di maschile e femminile. Il genere è dunque una rappresentazione sociale che indica le credenze culturali e familiari sull'uomo e sulla donna. Si tratta di un argomento complesso e controverso, sia per quanto riguarda un consenso sulle definizioni di base, sia per le ripercussioni che tali definizioni hanno sulle teorie psicologiche e gli studi culturali. Del resto, l'esistenza di condizioni intersessuali e la varietà delle espressioni sessuali e di genere ci spingono a ripensare la distinzione concettuale, apparentemente scontata, tra sesso e genere, e dunque anche la contrapposizione tra natura e cultura, determinismo biologico e determinismo sociale. Sul versante accademico, l'avvento della queer theory, dopo i gender studies, mira a un superamento della partizione binaria delle realtà sessuali a favore di una dimensione, appunto, «strana», «eccentrica», inclusiva e non esclusiva.

Se già J. S. Mill, nel 1869, metteva in discussione la pretesa «naturalità» delle differenze morali e intellettuali tra l'uomo e la donna, si deve alle teorie femministe l'attenzione al campo delle differenze di genere, fin da quando, nel 1949, S. de Beauvoir pubblica Il secondo sesso e mostra quanto di costruito e sovradeterminato vi sia nella condizione femminile (da cui la famosa affermazione «donna non si nasce, lo si diventa»). Da allora il discorso sul genere è letteralmente esploso. Le esperienze femministe, gay, lesbiche, queer, transessuali hanno dato vita a una mole imponente di studi e di produzioni artistiche e culturali. Indagando il concetto di genere e il suo articolarsi nei contesti relazionali e sociali, alcune studiose hanno messo in discussione il binarismo M/F e l'idea stessa di genere, fino a considerarlo un'imitazione di cui manca l'originale, una dimensione costruita e «performativa». Il corpo stesso viene pensato come una costruzione culturale, non un dato biologico irriducibile. Al di là del dibattito teorico, tutti noi facciamo esperienza di come la precarietà del dispositivo sesso-genere, la non consequenzialità tra sesso, forme del desiderio e scelte d'oggetto, la perdita d'evidenza della «naturalità» di categorie quali maschile/femminile, abbiano trasformato le nostre società e le nostre relazioni personali. Le sovversioni postmoderne dell'identità hanno moltiplicato le nostre possibilità e dato voce a molte marginalità, ma hanno anche condotto a stati di smarrimento e a sentimenti di nostalgia per soluzioni più «ordinate». Il genere è un paradigma in transizione (Dimen e Goldner, 2002).

Qui verranno ricostruite tre letture, inevitabilmente intrecciate: i punti di vista della psicoanalisi tradizionale e di quella femminista sulle differenze di genere, e l'approccio clinico-psichiatrico all'identità di genere e ai suoi disturbi. Possiamo schematicamente dividere gli studi femministi sul genere in essenzialisti e costruttivisti. L'essenzialismo ipotizza l'esistenza di caratteristiche stabili, tendenzialmente transculturali e transtoriche, radicate nel corpo e determinanti le differenze di genere. Il costruttivismo, influenzato dall'opera di M. Foucault e sviluppatosi soprattutto nei contesti culturali angloamericani, tende invece a negare l'idea di una natura precostituita e a considerare il ruolo dell'ambiente socioculturale nella formazione dei generi e delle sessualità. Nella prima prospettiva, la riflessione verte sulla centralità del corpo biologico e su come, a partire da esso, si organizzi la differenza; la seconda insiste invece sulle condizioni che decidono di tali differenze e le collocano nelle storie individuali e collettive, guidandone la costruzione, la voce o il silenzio. Per Foucault non è possibile parlare di «corpo sessuato» indipendentemente dal discorso e dal contesto delle relazioni di potere che lo parlano. E innegabile che alcune posizioni del costruzionismo radicale minimizzino eccessivamente le basi fisiche delle rappresentazioni sessuali, finendo col sottovalutare il ruolo della morfologia, della biologia e della fisiologia nel plasmare le nostre rappresentazioni mentali e nel costituire una fonte primaria nell'organizzazione del Sé. Al tempo stesso, è impensabile anche solo nominare i concetti di maschile e femminile senza sottoporre a decostruzione le ideologie e le circostanze che, nel corso della storia, ne hanno condizionato simboli ed espressioni (Laqueur, 1990; Mosse, 1996).

Tra i meriti dei gender studies c'è anche quello di avere obbligato i professionisti della salute mentale a «ripensare» le categorie del maschile e del femminile in modo più libero rispetto agli obblighi anatomici, agli stereotipi sociali e a teorie, soprattutto psicoanalitiche, ormai datate. Grazie a questi studi sono stati fatti molti passi avanti nella comprensione delle identità e delle sessualità, contribuendo così a ridurre il controllo della cultura patriarcale sul mondo delle donne e delle persone omosessuali. Negli ultimi trent'anni la comunità psicoanalitica, sostenuta da notevoli scambi interdisciplinari, ha trasformato il proprio punto di vista sul tema del genere e delle sue implicazioni nel processo di costruzione e definizione della personalità. Il modello freudiano è stato riesaminato criticamente; è stata messa in luce l'importanza della fase preedipica nella costruzione dell'identità; la maschilità non è più considerata il paradigma evolutivo predominante; sono stati decostruiti e falsificati assunti misogini quali il concetto di invidia del pene o la natura intrinsecamente masochista della donna; è stata sfidata la necessità di un canone eterosessuale. L'esempio delle donne, promotrici degli studi sul genere come women studies, è stato seguito da studiosi, spesso gay, che hanno indagato criticamente le convenzioni relative al genere e alle sessualità maschili. La sessualità, tradizionalmente considerata una forza istintuale che presiede alle dinamiche del desiderio, dello sviluppo psicologico e psicopatologico (teoria psicosessuale), è vista dalla psicoanalisi relazionale contemporanea come una dimensione psichica e fisica a sua volta organizzata nel contesto di «matrici relazionali». Il discorso sulla sessualità viene sganciato dal concetto metapsicologico di pulsione, per concentrarsi sul ruolo dell'esperienza sessuale nel rapporto con gli oggetti e nella formazione e conservazione del senso di sé. Il corpo e la sessualità sono elementi psichici importanti non tanto come forze autonome (pulsioni), ma come luoghi di negoziazione relazionale per l'organizzazione dell'esperienza. Tale radicale cambiamento di prospettiva sulla sessualità e sul suo significato nell'economia psichica dell'individuo ha notevoli ripercussioni sul modo di concepire l'identità di genere; la «differenza dei sessi» non è più il momento costitutivo fondamentale nella creazione del genere, e l’«anatomia» non è più un «destino» (Freud, 1925b).

Pur trascurando di operare la necessaria distinzione tra sesso biologico, genere e sessualità, S. Freud ipotizza una differenza psicologica, oltre che biologica, tra i sessi. Egli evidenzia consistenti differenze nella personalità maschile e femminile e afferma che i generi hanno un'origine diversa e un percorso di sviluppo che segue linee specifiche. Alla mascolinità e alla femminilità attribuisce significati differenti non solo sul piano dei caratteri biologici sessuali primari e secondari, ma anche su quello delle caratteristiche psicosessuali dell'attività e della passività. Se, da un lato, Freud suggerisce che nella psiche di ogni individuo si rintracciano componenti maschili e femminili, secondo la nota teoria della bisessualità psichica, dall'altro quasi mai si riferisce al genere sottolineandone gli aspetti di costruzione sociale e culturale. La differenza di genere è scontata, fondamentale e immodificabile, perché radicata nella biologia e, sostanzialmente, nella funzione riproduttiva. Il riconoscimento della distinzione tra i sessi, da parte dei bambini, avviene con la scoperta e della differenza anatomica (riconducibile essenzialmente alla presenza/assenza del pene), che costituisce una svolta nello psichicologia infantile, in quanto i bambini cominciano ad attribuire speciali significati alle loro esperienze relazionali, attuali e pregresse, che vengono a riorganizzarsi alla luce dei nuovi costrutti di mascolinità e femminilità. I problemi legati al genere sono per Freud la «roccia basilare» biologica (1937a), perché i maschi hanno il pene, che sarà sempre vulnerabile alla castrazione, e le femmine ne sono prive e lo desidereranno sempre. Secondo la teoria freudiana dello sviluppo psicosessuale, nelle fasi evolutive più precoci i bambini di entrambi i sessi sono convinti di essere tutti uguali. Quando scoprono l'effettiva differenza anatomica ne rimangono sconvolti, sviluppando, i maschi, l'angoscia di castrazione, e le femmine l'invidia del pene. La femminilità si verrebbe così a costruire attraverso l'accettazione dell'assenza del pene e dunque della passività sessuale. Infatti, prima che il suo sviluppo psichico, inizialmente maschile, proceda nel senso della femminilità, la bambina, come «piccolo uomo», ama, passivamente e attivamente, la madre; fino a quando «scopre» di non avere il pene: allora, attribuendo alla madre la colpa di tale mancanza, si rivolge al padre nel tentativo di procurarsi il pene che le manca. La bambina diventa allora l'oggetto del padre, e così si attua il passaggio dall'attività alla passività. Il desiderio non esaudito del pene è destinato a tramutarsi, nelle donne, nel desiderio di un figlio e dell'uomo che possiede il pene. Tuttavia, specifica Freud, con frequenza sorprendente troveremo che il desiderio di mascolinità si è preservato nell'inconscio e, dallo stato di rimozione in cui si trova, svilupperà i suoi effetti perturbatori.

In sintesi, per Freud uomini e donne condividono ed elaborano, seppur in modo diverso, un vero e proprio «rifiuto della femminilità»: l'angoscia di castrazione deriva, infatti, dalla ribellione del maschio contro la propria impostazione passiva o femminea nei riguardi dell'altro uomo, mentre le femmine sviluppano l'invidia del pene, sentimento alimentato dall'aspirazione di possedere il genitale maschile. Il ragionamento fallocentrico e l'approccio essenzialista, favoriti dallo spirito del tempo, attraversano anche la teorizzazione junghiana. Per C. G. Jung, maschile e femminile sono dimensioni archetipiche presenti in ciascuno di noi; egli chiama Anima la componente femminile della psiche maschile, e Animus la componente maschile della psiche femminile. Jung si serve di tali nozioni, e dei concetti di Eros e Logos, per descrivere le dimensioni psicologiche e psicopatologiche degli uomini e delle donne. Agli autori postfreudiani e postjunghiani spetterà il difficile, e non sempre possibile, compito di liberare questi modelli patriarcali dalle loro implicite connotazioni culturali. Negli anni '30 e '40 del secolo scorso, una prima generazione di psicoanaliste, tra cui K. Horney e C. Thompson, iniziano quello che sarà un lungo percorso di riformulazione e critica femminile della lezione freudiana. Le due autrici avanzano l'ipotesi secondo cui le differenze di genere sono un prodotto culturale, e i ruoli di genere derivano essenzialmente dall'attribuzione di significati sociali alle differenze biologiche. In particolare, la Horney respinge l'idea che la femminilità si sviluppi solo attraverso l'invidia del pene e, piuttosto, mette in relazione il cosiddetto «masochismo femminile» con i temi del narcisismo e della mancanza di autostima. Sebbene ancora molto legate alla tradizione, esse anticipano alcuni temi che saranno poi sviluppati in teorizzazioni femministe degli anni '80. Un contributo spesso citato negli studi postmoderni sul genere è un saggio di J. Rivière (1929), in cui la psicoanalista inglese suggerisce che in alcune donne (forse in tutte) la femminilità è inseparabile dal mascheramento, cioè da una costruzione finalizzata ad alleviare l'ansia del maschio di fronte alla loro assertività («mascolina») e a trasformare in seduzione l'aggressività e la paura della rappresaglia.

Anche M. Klein fornì un notevole contributo ai temi del genere e della sessualità, esplorando le primissime fasi dello sviluppo infantile ed elaborando i concetti di fantasia inconscia, attacco contro il corpo materno, fase di femminilità, ecc. Nella fantasia inconscia, la madre, nelle proiezioni del bambino/a, diventa una presenza buona o ostile, e viene considerata come contenente il seno, le feci, il pene del padre e i bambini; questi elementi maschili e femminili, confusi nella madre, saranno differenziati solo successivamente. La bambina avrebbe una consapevolezza inconscia della propria vagina, il suo «fallicismo» sarebbe dunque secondario e difensivo, e la cosiddetta «invidia del pene» sarebbe una conseguenza della svalutazione della femminilità, a sua volta conseguente all'intensa dipendenza dal seno materno odiato.

Uno dei principali esponenti degli studi sul genere, lo psichiatra e psicoanalista R. Stoller (1968; 1985), definisce l'identità di genere come il senso soggettivo di appartenenza alle categorie di maschio o di femmina (e cioè la percezione di sé come maschio o femmina), e il ruolo di genere come l'espressione esteriore di tale identità sulla base di ciò che culturalmente «viene considerato» maschile o femminile. L'introduzione di questi termini si deve a J. Money, che già a metà del secolo scorso descriveva l'identità di genere come l'esperienza privata del ruolo di genere, e il ruolo di genere come l'espressione pubblica dell'identità di genere. E’ evidente che, pur se intrinsecamente legati, i due concetti non sono sovrapponibili.

Con Stoller, la sessualità e le sue linee evolutive passano in secondo piano per dare rilievo al concetto di «identità di genere nucleare», che preesisterebbe alla scoperta della differenza sessuale: un sentimento precoce di identità che si stabilisce in modo irreversibile entro il primo anno e mezzo di vita del bambino. Questo nucleo inalterabile dell'identità di genere («sono maschio», «sono femmina») va distinto, per Stoller, da quell'insieme di convinzioni («sono virile», «sono femminile») più sottili e dall'evoluzione più complicata, che si ottengono solo dopo che il/la bambino/a ha imparato ciò che intendono i genitori per mascolinità e femminilità. L'identità nucleare di genere si sviluppa per effetto della convergenza di fattori biologici, fisiologici e di componenti psicologiche, di natura emotiva e cognitiva, e designa il modo conscio e inconscio di sentirsi e di riconoscersi appartenenti a un sesso. Poiché estremamente precoce nel suo costituirsi, l'assunzione dell'identità nucleare di genere non prevede una dimensione conflittuale; essa si fonda, in gran parte, sull'atteggiamento dei genitori e dei familiari nei confronti del ruolo di genere del/la bambino/a e sulla sua attribuzione a un sesso o all'altro. I genitori improntano la relazione col figlio sulla base delle loro specifiche convinzioni e aspettative relative alla mascolinità e alla femminilità, sui loro personali conflitti di genere, sui loro modelli culturali, da cui traggono origine gli schemi di accudimento e di cura ritenuti appropriati al genere del bambino. Fondata sull'identità nucleare, l'identità di genere nel bambino si consoliderebbe fra i tre e quattro anni con il concorso di componenti multiple, soprattutto i processi di identificazione e disidentificazione con i genitori di entrambi i sessi. A partire dagli anni '60, la voce delle donne si fa sempre più decisa. Da posizioni e geografie diverse e talvolta conflittuali, esse riconoscono e denunciano l'esistenza di una «politica dei generi». Nell'area degli studi contemporanei sul genere vanno annoverati anche i contributi sul soggetto cyber, inteso come figurazione e metafora di un'eterodossia di modi e forme di soggettività e desiderio che si sottraggono ai dualismi dominanti, sulle trasformazioni dell'identità e del genere nell'epoca di Internet, sull'intreccio delle rappresentazioni culturali della razza con quelle del sesso e del genere. Uno dei discorsi portanti del femminismo contemporaneo riguarda, dunque, la necessità di conciliare l'esigenza di affermarsi come soggetto politico senza riprodurre i meccanismi di esclusione su cui si fonda il patriarcato. Il cyborg di D. Ha-raway (1991), il soggetto nomade di R. Braidotti (1994), il soggetto eccentrico di T. De Lauretis (1999) sono alcuni tentativi di risposta a questo problema. Nel 1974, la psicoanalista e filosofa francese L. Irigaray pubblica Speculum. L'altra donna, un'opera che rappresenta una pietra miliare negli studi sulla differenza sessuale. La Irigaray si propone di mostrare come il pensiero maschile si sia imposto come codice universale e necessario, sottraendo alle donne ogni possibilità di autosignificarsi. Non si tratta di proporre un'ennesima «teoria sulla donna», ma di rendere significativa la differenza femminile all'interno di un linguaggio che si è ordinato secondo un'economia rigorosamente monosessuata; di sottrarre la sessualità femminile alla definizione freudiana di «continente nero» e di interrogare il luogo dell'«essere donna». La differenza sessuale, la differenza irriducibile tra essere uomo e essere donna, non può limitarsi al dato anatomico, ma deve diventare qualcosa di «pensato» e «pensante» in grado di aprire, grazie a una riflessione autonoma sull'amore di sé, l'amore del medesimo e l'amore dell'altro, lo spazio per un rapporto possibile, un'«etica della differenza sessuale».

Per N. Chodorow (1978; 1994), sociologa e psicoanalista, le differenze di genere sono il prodotto degli assetti sociali e, in particolare, del dislivello esistente tra la figura materna e quella paterna nella crescita dei figli. La studiosa americana inserisce la sua teoria in un contesto socioculturale in cui le modalità di educazione dei figli influenzano radicalmente i percorsi maschili e femminili dell'identità, spingendo le bambine ad assumere una natura più relazionale e i bambini a rivolgersi verso il mondo esterno. La funzione materna della donna si autoriprodurrebbe in modo circolare: le donne, in quanto madri, producono figlie dotate di capacità materne e del desiderio di fare le madri. Nei figli maschi, le attitudini materne sarebbero invece amputate e rimosse. La divisione familiare e sessuale del lavoro, per cui le donne fanno le madri e sono più coinvolte degli uomini nei rapporti affettivi, produce nelle figlie e nei figli una divisione delle potenzialità psicologiche che li indurrà a perpetuare a loro volta la medesima divisione sessuale e familiare del lavoro. La mascolinità si svilupperebbe, dunque, in termini di esperienza della differenza dalla femminilità, all'insegna del «non-me», mentre la femminilità non può mai sottrarsi originariamente dall'essere «parte di me», dalla somiglianza con la madre e con la sua femminilità. Seguendo l'impostazione stolleriana, la Chodorow sposta alla fase preedipica la formazione dell'identità di genere e considera il processo di costituzione della personalità, e in particolare dell'identità di genere, fondamentalmente basato su dinamiche identificatone del bambino col genitore dello stesso sesso. Le bambine, che non devono disidentificarsi dalla madre, tendono a sviluppare un'identità di genere più continua e stabile, ma hanno la tendenza a minimizzare l'indipendenza e la separatezza; i bambini, invece, hanno una relazione discontinua con la madre, perché devono separarsene e rivolgersi al padre per identificarsi con lui, e maggiori difficoltà nel raggiungimento dell'identità di genere, ma acquisiscono più facilmente il senso di separatezza e autonomia.

Secondo la prospettiva del costruzionismo radicale di J. Butler (1990; 1993), il genere è totalmente costruito: un «artificio liberamente fluttuante», un divenire non concepibile come una cosa reale; non un'etichetta culturale statica, ma un'incessante e ripetuta azione. La sua riflessione si concentra sulla sessualità, il potere e l'identità, a indicare nell'economia dell'eterosessualità fallica l'atto fondativo dell'ordine simbolico patriarcale che esercita il suo dominio mediante il potere performativo del linguaggio: la citazione e la ripetizione della norma producono ciò che viene nominato, non si limitano a significarlo. E proprio nel corpo che la Buder, più radicale di M. Foucault, riconosce il luogo in cui il discorso dominante cela i processi che portano alla riproduzione dei meccanismi di potere. Il discorso dominante propone identificazioni «lecite» (l'uomo e la donna eterosessuali) che conferiscono all'individuo lo statuto di soggetto. Le soluzioni queer verrebbero invece relegate fuori dai confini del soggetto: così precluse, esse costituiscono la sfera dell'«abietto», un territorio sociale temuto e «inabitabile». La psicoanalista J. Benjamin (1988; 1995) introduce l'idea di un genere «fluido» che si muove tra varie identificazioni, e di un processo di sviluppo sessuale non lineare o per forza rivolto alla complementarità eterosessuale. Mostrando come la polarità maschile/femminile si strutturi nella mente di ciascun individuo tramite i processi patologici della scissione, la Benjamin insiste sull'importanza di sottrarsi agli obblighi dell'opposizione binaria e auspica un'integrazione dei generi che, passando attraverso il riconoscimento delle differenze, non disconosca il valore delle somiglianze. Mentre Stoller e la Chorodow parlano di identificazione e disidentificazione, per la Benjamin non solo non è sempre necessario rimuovere le identificazioni con il sesso opposto, ma anzi è vitale conservarle per sviluppare la capacità di elaborare sentimenti e comportamenti dell'altro sesso. Schematicamente, individua quattro tappe nel processo di sviluppo dell'identità di genere: l'identificazione di genere nominale; la differenziazione precoce delle identificazioni nel contesto della separazione-individuazione; la fase preedipica iperinclusiva; la fase edipica. Nella fase preedipica, nella mente del bambino coesistono rappresentazioni di sé legate al proprio genere, altre prive di connotazioni, altre ancora appartenenti al genere opposto. Se è necessario saper distinguere gli aspetti femminili e maschili del Sé, altrettanto importante è la capacità di integrare ed esprimere tali elementi, che non significa necessariamente vivere in modo confuso la propria identità di genere. Benjamin sottolinea in particolare la necessità per la bambina, nella fase preedipica, di identificarsi con la figura paterna per definirsi come soggetto e ottenere un senso di autonomia del proprio corpo e della capacità di muoversi nel mondo esterno. L'identificazione della bambina con la mascolinità rifletterebbe non tanto una reazione difensiva all'invidia del pene, quanto piuttosto amore e ammirazione per il padre. Benjamin definisce questo amore come «identificatorio» e non narcisistico, perché basato sul desiderio di «essere come» e perché è la prima forma di amore per qualcuno sentito come «altro». Lo sviluppo non va quindi inteso come un percorso lineare che si allontana da un'originaria posizione onnicomprensiva, ma è l'acquisizione della capacità di ritornarvi senza perdere la consapevolezza di sé. E dunque necessario decostruire la dicotomia di genere e pensare ad esso in termini transizionali: non esistono limiti stabili con confini invalicabili, e gli opposti convenzionali sono in movimento e in continua tensione creativa. Più che un risultato evolutivo, il genere va contemporaneamente inteso come una dimensione relativamente fluida e come una categoria che organizza l'esperienza psicologica e sociale.

Come altre psicoanaliste contemporanee quali M. Dimen e A. Harris, la Benjamin propone una lettura del genere non come caicgoria determinativa, ma come campo di forze, di «dualismi» in gran parte costruiti socialmente. Nella sua fluidità composita e continuamente ricreata, il genere è dunque culturalmente determinato (può essere compreso solo nel suo contesto culturale), ma anche creato individualmente. E flessibile e permeabile, ma resta iscritto nel corpo. Una trattazione delle tematiche relative al genere non può trascurare ciò che in psichiatria viene indicato come «disforia di genere». Per riferirsi alle condizioni in cui la percezione della propria identità di genere non «corrisponde» al sesso assegnato alla nascita, l'attuale nosografia psichiatrica (DSM-IV-TR, 2000) parla di «disturbo di identità di genere» (dig): una forte e persistente identificazione con il sesso opposto, accompagnata da profondo disagio in relazione al sesso «di appartenenza». Viene raccomandato di non confondere il dig con una semplice non conformità ai comportamenti e agli stereotipi del ruolo di genere - una bambina descritta dai familiari, dagli insegnanti o dai pari come un «maschiaccio», un bambino descritto come una «femminuccia». La persona con disturbo dell'identità di genere vive di solito, sin dall'infanzia, una sensazione di estraneità e sofferenza rispetto alla propria appartenenza sessuale e al ruolo di genere che gli/le viene assegnato. La sensazione riportata più frequentemente è quella di essere «nati con il sesso sbagliato» o di essere degli «errori della natura». Sono persone che crescono sviluppando una forte discrepanza tra l'immagine corporea percepita e quella biologicamente evidente: ciò li porta a odiare, fino a evitarne il contatto, i propri genitali, simbolo evidente del conflitto fisico-psichico.

Le trasformazioni corporee della pubertà diventano un momento critico e un importante banco di prova relativamente al destino della propria identità di genere, che può prendere diversi percorsi, da un complesso lavoro psicologico di integrazione delle proprie inclusioni e identificazioni di genere, a una vera e propria richiesta di riassegnazione sessuale chirurgica. In Italia, la legge 164 del 14 aprile 1982 riconosce la condizione delle persone transessuali e legittima la loro aspirazione ad appartenere al sesso opposto, autorizzando, dopo una valutazione medico-psicologica e con una sentenza del Tribunale, la riassegnazione dei caratteri sessuali. La prima riattribuzione chirurgica di sesso di tipo MtF (Male to Female) è stata eseguita in Danimarca da un marine americano, George Jorgensen, diventato Cristine; la prima riassegnazione di tipo FtM (Female to Male) fu quella di Sophia Hedwig, divenuta, nel 1992, Karl Herman. Oggi uno dei maggiori riferimenti per chi opera nel campo delle riattribuzioni chirurgiche di sesso, anche in Italia, è l'Harry Benjamin Standars of Care, un protocollo che raccoglie le indicazioni (del caso, dal percorso per bambini e adolescenti, alla psicoterapia per adulti, dalla terapia ormonale alla chirurgia) che si rendono indispensabili per portare a compimento l'iter di riassegnazione chirurgica. Sembra superfluo ricordare che transessuali-smo e travestitismo (la consuetudine di abbigliarsi con vestiti e segnali tipici dell'altro sesso), sono entità differenti. Il travestitismo, infatti, non implica un disturbo dell'identità di genere e si configura come una riformulazione, più o meno sofisticata, del ruolo di genere in contesti che vanno dalla pratica sessuale alla provocazione sociale. Il travestito esprime, più o meno giocosamente, un conflitto con il ruolo di genere, mentre il transessuale lo esprime con il corpo sessuato, che vuole trasformare morfologicamente per adeguarlo all'immagine mentale che ne ha. Il transessuale si rivolge agli organi e fa del corpo sessuato il sito della metamorfosi da maschio a femmina o da femmina a maschio. Il travestito si rivolge ai simboli della mascolinità e della femminilità e teatralizza, reversibilmente, il movimento dal sesso d'appartenenza al genere d'elezione. È bene infine precisare che orientamento sessuale, identità di genere e ruolo di genere sono concetti diversi; correlabili, ma non necessariamente correlati. Oggi non si pensa più alle persone omosessuali come a «uomini con una forte componente femminile» o a «donne con una forte componente maschile». Se nel campo dell'orientamento sessuale un approccio metodologicamente corretto richiede l'uso del plurale (le omosessualità, le eterosessualità), lo stesso vale per le espressioni di genere che, nell'ambito delle omosessualità, sono molteplici e varie, così come lo sono nelle eterosessualità. Tanto l'orientamento eterosessuale quanto quello omosessuale possono includere le declinazioni (e identificazioni) più svariate di ciò che intendiamo per maschile/femminile, mascolinità /femminilità.

VITTORIO LINGIARDI